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October 19, 2008

L’U.F.O che si schiantò in Giappone



Nella biblioteca giapponese Iwase Bunko è custodito un testo intitolato Hyouryuukishuu (Storie di naufragi), risalente al tardo periodo Edo (1603-1868).

Il testo racconta di un insolito naufragio sulle coste giapponesi. Si narra, infatti, di un vascello, largo 5,4 metri ed alto 3,3, che si arenò sulla spiaggia di Harashagahama. Il vascello sembrava di ferro e nello scafo si aprivano degli oblò che parevano di vetro. All'esterno ed all'interno del veicolo furono rinvenuti strani caratteri di un alfabeto sconosciuto. A bordo si trovava una giovane donna dalla pelle chiarissima con sopracciglia e capelli rossi. Coloro che la avvicinarono riferirono che la donna parlava una lingua ignota.

Un'illustrazione del documento mostra la figura muliebre, mentre tiene stretta tra le mani una scatola di legno che doveva rivestire per lei un'importanza vitale tanto che non permise a nessuno di avvicinarvisi.

Questo singolare racconto è riportato con alcune varianti anche in altri testi dello stesso periodo, come il libro Toen Shousetsu (1825) scritto da Kyokutei Bakin, o il romanzo Ume no Chiri (1844).

Si tratta di una testimonianza clipeologica di notevole interesse per molte ragioni: è il resoconto piuttosto preciso di un presunto incontro ravvicinato del terzo tipo; la figura femminile, proveniente da un altro pianeta presenta i tratti somatici di donne dello spazio protagoniste di qualche abboccamento con terrestri durante la seconda metà del XX secolo; la narrazione è corredata di illustrazioni inequivocabili. E', infatti, effigiato il classico U.F.O. con la parte inferiore contraddistinta da una raggiera, mentre nella calotta si notano delle probabili aperture quadrettate.

La visitatrice ha il volto di una giovane nipponica, evidentemente per una naturale inclinazione dell'illustratore a ricondurre fattezze aliene a qualcosa lui familiare. I capelli neri della visitatrice sono raccolti in una crocchia da cui scende una lunghissima coda. Ella indossa una sorta di giubba abbottonata e con colletto come rigonfio, pantaloni bicromi a zampa d'elefante ed allacciati in vita da una gala rosa. Ancora più del singolare abbigliamento, adatto più ad un uomo che ad una donna dell’epoca, colpisce la piccola arca che la donna tiene stretta a sé: è uno strumento per comunicare, ossia una sorta di traduttore? (1)



Il disegnatore curò anche di riportare diligentemente i geroglifici osservati sull'astronave. Sono un triangolo il cui lato sinistro è intersecato da un cerchio; un glifo simile al segno fenicio zayin, pugnale, ma con una barra orizzontale al centro; un circolo; un cerchio sormontato da una croce greca (2) ; un delta con due lati intersecati da cerchi.

Non è il caso di cimentarsi in lambiccati e, alla fine, inani tentativi di decifrazione di tali simboli, ma salta all'occhio che alcuni assomigliano in modo sbalorditivo a certi caratteri impressi sulle travi a doppio T del "filmato dei rottami" diffuso dal controverso Ray Santilli. In particolare è pressoché identico il segno con le due E speculari, simili sono i triangoli qui associati ad una barra parallela al lato sinistro ed il cerchio che, però, è attraversato da due linee parallele che conferiscono al segno la forma di una testa di vite. (3)

Che cosa può significare tale analogia? Forse qualche spezzone del filmato realizzato da Santilli è autentico o il regista britannico per confezionare il falso si ispirò al documento iconografico giapponese?

E', invece, soltanto una coincidenza?

(1) Circa le apparenti fattezze nipponiche, bisogna aggiungere che gli occhi a mandorla ed i capelli rossi sono tratti riscontrati in alcune visitatrici dello spazio.

(2) Siamo in presenza di un simbolo identico al glifo che, nell’astrologia, si riferisce al pianeta Venere, ma capovolto. In questa identificazione grafica del pianeta ciprigno qualcuno ha visto uno specchio, in cui la croce sarebbe l’impugnatura; altri il sole sulla linea delle acque; altri il sole che sovrasta la materia, rappresentata dalla croce. Il glifo è simile all’ankh egizia, definita la “chiave della vita”.

(3) Nel 1947, Jesse Marcel Jr. disegnò i glifi da lui osservati sui rottami mostratigli dal padre, prima che egli li consegnasse alla base della cittadina. Il disegno mostra vari disegni (un quadrifoglio, una croce bombata, degli otto etc.), ma anche nella parte superiore una barra a doppia T su cui pare siano effigiate le stesse "lettere". Sembra che questi caratteri siano diversi da quelle della sbarra che compare nel documento di Santilli: sono segni su cui si sono arrovellati numerosi studiosi. Suggestiva, ma del tutto oziosa, se - come sembra – il video è falso, l’interpretazione di Michael Hesemann che collega i glifi a lettere dell’alfabeto fenicio cui sono accostabili per qualche affinità formale. Numerosi e talora forzati altri tentativi di decodificazione.

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